Per circa venticinque anni l’autrice della tetralogia napoletana de “L’amica geniale” ha adottato la morale sostenuta da Michel Foucault alla fine degli anni Sessanta (“Non domandatemi chi sono… è una morale da stato civile. Regna sui nostri documenti. Ci lasci almeno liberi quando si tratta di scrivere”), nascondendosi dietro allo pseudonimo di “Elena Ferrante”.
Di lei non sono mai state pubblicate foto, né era mai stato stabilito chi fosse veramente. Come riportato dalla quarta di copertina dei suoi libri si sapeva solo che “è nata a Napoli”.
Nello stesso tempo, la Ferrante è stata in grado di parlar molto di sé, concedendo numerose interviste mediate dalla casa editrice e scrivendo La Frantumaglia, un volume che si dichiara autobiografico.
Un’inchiesta pubblicata nell’ottobre 2016 da “Il Sole 24 Ore”, dal giornale tedesco “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, dal sito di giornalismo investigativo francese “Mediapart” e da quello della rivista americana “The New York Review of Books”, porterebbe alla luce evidenze “documentali” che danno un contributo senza precedenti al lavoro di identificazione della misteriosa scrittrice.
Invece che su un’immaginaria figlia di una sarta napoletana (così come l’autrice si presenta ne La Frantumaglia) le prove raccolte punterebbero il dito su Anita Raja, traduttrice residente a Roma. Sposata con lo scrittore napoletano Domenico Starnone, la Raja ha da tempo uno stretto rapporto di collaborazione con Edizioni e/o, la casa editrice che pubblica Elena Ferrante, e per cui da molti anni fa lavora come traduttrice dal tedesco. Per un breve periodo è stata anche coordinatrice della collana degli “Azzurri”, che negli anni Novanta ha pubblicato tre o quattro libri, fra cui il primo romanzo della Ferrante.
Edizioni e/o ha spiegato che Raja è una semplice traduttrice freelance e “assolutamente non una dipendente” della casa editrice. Questo ruolo non potrebbe mai spiegare i compensi pagati nell’ultimo paio di anni da Edizioni e/o a Raja, che dall’ inchiesta risulta essere stata la principale beneficiaria del successo commerciale dei libri della Ferrante.
Illuminante l’analisi dei redditi registrati da Edizioni e/o e da Anita Raja negli ultimi anni, quelli del boom della tetralogia de L’amica geniale. Il compenso totale pagato nel 2015 da Edizioni e/o alla Raja è arrivato a superare di oltre sette volte il compenso del 2010, epoca in cui il successo dei suoi libri era ancora limitato all’Italia e ancora non era stato pubblicato il primo volume della tetralogia.
Tale balzo, di cui non risulterebbe aver beneficiato alcun altro dipendente, collaboratore o scrittore di Edizioni e/o, è difficilmente giustificabile con un aumento della mole di lavoro di traduttrice, lavoro notoriamente pagato poco. La spiegazione più logica è che sia dovuto al successo dei libri di Elena Ferrante. I compensi del 2014 e 2015 parrebbero coincidere proprio con le somme prodotte dai diritti di autore.
Sotto il profilo dei risultati economici, i libri della Ferrante hanno spiccato il volo solo dopo i successi registrati molto più recentemente nei mercati in lingua inglese, in particolare quello americano, dove e/o pubblica tramite una sua sussidiaria.
Dal 1992, ovvero da quando è stato pubblicato il suo primo libro, la Ferrante si nasconde dietro un nome studiato a tavolino in evidente omaggio a Elsa Morante (1912-1985), Premio Strega 1957 con L’isola di Arturo (Einaudi, Torino). Da allora, con la complicità della sua casa editrice, l’autrice ha partecipato al gioco mediatico soddisfacendo la vorace curiosità dei giornalisti, dei critici letterari e dei lettori, dapprima con informazioni sporadiche e poi con un epistolario pubblicato su impulso dei suoi editori.
A sollecitarlo era stata una lettera aperta in cui Sandra Ozzola, comproprietaria di e/o osservava che la curiosità dei lettori “meriterebbe forse una risposta più generale. Non solo per placare quanti si perdono nelle ipotesi più arzigogolate sulla tua reale identità, ma anche per un sano desiderio dei tuoi lettori di conoscerti meglio”.
Era nata così La Frantumaglia (2003), unica opera non fiction pubblicata dalla Ferrante e di cui, nel 2016, è uscita in Italia un’edizione aggiornata.
In quel libro i lettori avevano appreso che la scrittrice ha tre sorelle, che la madre era una sarta napoletana incline a esprimersi “nel suo dialetto”, e che lei aveva vissuto a Napoli fin quando non ne era “scappata via” avendo trovato lavoro altrove.
Nessuno fra questi dettagli corrisponde alla vita di Anita Raja. Come la madre di Elsa Morante, anche la sua non era una sarta, bensì un’insegnante. E non era napoletana. Ebrea (come la madre della Morante), era nata a Worms – in Germania – da famiglia emigrata dalla Polonia e parlava italiano con un evidente accento tedesco. Inoltre, la Raja non ha sorelle e a Napoli è nata ed ha trascorso solo i suoi primi tre anni di vita.
Tuttavia, ne La Frantumaglia, la Ferrante, in un certo qual modo, per due volte aveva avvertito i lettori. “Io non odio affatto le bugie, nella vita le trovo salutari e vi ricorro quando capita per schermare la mia persona”, aveva scritto. E, in un altro passaggio, aveva aggiunto: “Italo Calvino nel 1964 scriveva a una studiosa che chiedeva informazioni personali: Mi chieda pure quel che vuol sapere e glielo dirò. Ma non le dirò mai la verità. Di questo può star sicura. Questo passo mi è sempre piaciuto e almeno parzialmente l’ho fatto mio”.
Mentendo – o meglio, annunciando che qua e là avrebbe mentito – si può dire che l’autrice abbia lanciato una sorta di “guanto di sfida” ai critici letterari ed ai giornalisti.
Finora ad avventurarsi nella ricerca dell’identità della creatrice di Lila e Lenù sono stati i critici letterari, che hanno utilizzato metodi di ricerca filologica e letteratura comparata.
Circa un decennio fa, su richiesta dell’italianista Luigi Galella, un team di fisici e matematici dell’Università di Roma “Sapienza” diretto da Vittorio Loreto aveva usato un programma da loro elaborato per analizzare i primi libri della Ferrante. Arrivarono alla conclusione che c’era un’alta probabilità che fossero stati scritti da Domenico Starnone, da allora inserito nella lista dei “possibili Ferrante”.
Insieme a lui in quell’elenco c’è anche sua moglie Anita Raja, già da tempo segnalata da Dagospia (“Lo sanno anche i sassi che Elena Ferrante è Anita Raja”). Ma anche gli stessi Sandro Ferri e Sandra Ozzola, comproprietari di e/o. E ancora gli scrittori Erri De Luca, Goffredo Fofi, Fabrizia Ramondino, e molti altri, compresa Ann Goldstein, a traduttrice americana dei libri di Elena Ferrante. Ultima arrivata è stata la Marcella Marmo, professoressa ordinaria di Storia contemporanea all’Università “Federico II” di Napoli, identificata sul “Corriere della Sera” dal dantista Marco Santagata sulla base di paralleli linguistici, ambientazioni e i rapporti con la Normale di Pisa, frequentata da Lenù, la protagonista della tetralogia, e dalla professoressa Marmo.
Tuttavia, nessuna fra queste ipotesi era stata finora sostenuta da prove concrete come quelle ora trovate. Inoltre, gli elementi di “evidenza contabile” non sono gli unici identificati. A questi se ne aggiungono infatti svariati altri.
A cominciare dai nomi. Quello di Elena, che la scrittrice ha scelto come pseudonimo e ha attribuito alla voce narrante della tetralogia (Elena Greco, detta Lenù) era il nome di una zia molto amata dalla Raja. Poi Nino, nome dato al grande amore di Lenù, che è l nome con cui viene familiarmente chiamato Domenico Starnone.
Troviamo poi varie coincidenze. Ne L’amica geniale viene sottolineata l’importanza avuta dalla biblioteca rionale nella crescita culturale di Lila (“Mi mostrò fieramente tutte le tessere che aveva, quattro: una sua, una intestata a Rino, una a suo padre e una a sua madre. Con ciascuna prendeva un libro in prestito, così da averne quattro tutti insieme”). Ora, anche se in Italia, purtroppo, il valore delle biblioteche pubbliche viene apprezzato solo di rado, Anita Raja è stata per anni direttrice della Biblioteca europea di Roma.
Per quel che riguarda il collegamento con la Scuola Normale di Pisa, è stato scoperto che, ad essere stata “normalista” è sua figlia, la quale seguendo le orme della madre ha tradotto libri dal tedesco per Edizioni e/o.
C’è poi la questione dell’analisi dei testi.
Dopo aver tradotto autori quali Franz Kafka e Hans Magnus Enzesberger, la Raja si è “specializzata” nella traduzione di scrittrici della Germania dell’Est. In un articolo da lei pubblicato su “Noi Donne”, storica rivista del movimento femminista italiano per la quale (altro indizio) in Storia della bambina perduta pubblica un pezzo anche Lenù, manifesta la sua ammirazione per una narrativa in grado di produrre “un corpo sociale femminile emancipato e perciò capace di […] esprimere voci che sintetizzano narrativamente questa capacità di autoriflessione”.
Il riferimento è a Helga Schubert, Helga Konigsdorf, Maxie Wander, Sarah Kirsch, ma soprattutto a Christa Wolf. Nel corso degli anni, con quest’ultima scrittrice la Raja aveva stabilito un rapporto e profondo. “Ho conosciuto Christa Wolf nel 1984, conoscenza che negli anni si è trasformata in amicizia […] Per me questo è stato molto istruttivo […] Il suo lavoro di verbalizzazione ha agito sul mio più povero e comune lavoro di accoglienza nella mia lingua, e lo ha potenziato, costringendomi a vie che non mi sarebbe mai venuto in mente di tentare.”
Rebecca Falkoff, italianista della New York University è convinta del fatto che il legame tra Raja e Wolf confermi che, dietro allo pseudonimo di Elena Ferrante, si nasconda la traduttrice di Edizioni e/o.
“Dal punto di vista tematico le opere di Ferrante si incrociano considerevolmente con quelle di Wolf. La tetralogia di Ferrante inizia con la scomparsa di Lila e Riflessioni su Christa T., della Wolf, racconta la storia di una donna che ricostruisce le tracce di un’amica perduta. Si pensi poi a Medea e Cassandra, due rivisitazioni di Wolf di testi classici, e al fatto che anche I giorni dell’abbandono di Ferrante si ispira ai miti di Medea e Didone, mentre, con la sua pericolosa preveggenza, Lila ricorda la figura di Cassandra. Nel descrivere il suo rapporto di apprendistato letterario con Wolf, che divenne per lei una madre simbolica, Raja spiega che traducendo le parole di Wolf ha trovato il coraggio e il linguaggio per osare quello che altrimenti non avrebbe osato. Può darsi che si riferisse alle traduzioni, ma credo piuttosto che alludesse alla sua decisione di pubblicare i suoi scritti.”
L’influenza della Wolf, scomparsa nel 2011, spiegherebbe anche perché il programma del professor Loreto – il già citato fisico dell’Università di Roma “ Sapienza” – abbia individuato legami fra i testi di Elena Ferrante e quelli di Domenico Starnone. Con ogni probaabilità il loro “comune denominatore” è stata proprio Christa Wolf, scrittrice che ha fortemente influenzato sia marito che moglie.
A riconoscerlo sono stati loro stessi. In un articolo pubblicato su “Il Mattino” nel marzo 2009, la Raja e Starnone scrivono: “Ogni libro di Christa che ho tradotto in italiano è diventato, tra noi due, per mesi, oggetto di discussione, un’occasione per riflettere, per apprendere. Non era solo passione letteraria, voglia di venire a capo di un testo complesso […] Christa ci ha sedotto”.
La scelta dello pseudonimato da parte della scrittrice napoletana risale ad epoche precedenti alla pubblicazione de L’amore molesto, quando scrisse una lettera aperta a suoi editori affermando “Io sarò lo scrittore meno costoso della casa editrice. Vi risparmierò perfino la mia presenza”.
In epoche di ricerca della notorietà a ogni costo, la scrittrice chiedeva che non si sapesse nulla della sua vita privata. Una scelta che potrebbe esser stata dettata da due fattori ben più nobili del “mercantilismo” di cui (forse con eccessiva fretta e superficialità) è stata accusata in alcuni circoli intellettuali italiani.
Il primo di natura caratteriale (“Ero spaventata dal pensiero di uscire dal mio guscio e la timidezza ha prevalso”). Il secondo potrebbe esser stato il frutto di una convinzione letteraria fondata sulle già citate idee formulate alla fine degli anni Sessanta da Michel Foucault (e prima di lui da Roland Barthes): “Credo che i libri, una volta scritti, non abbiano bisogno dei loro autori”, ha scritto l’autrice.
Nel saggio Che cos’è un autore? Michel Foucault aveva proposto una nuova categoria letteraria, ovvero quella della “funzione-autore”, che si sostituisse al soggetto scrivente in quanto individuo. A suo avviso, così come avviene per una scoperta scientifica, un’opera doveva essere validata e apprezzata indipendentemente dal suo autore/autrice, in modo tale che il linguaggio avesse la possibilità di affermarsi libero dal suo creatore.
Si trattava della risposta novecentesca alle teorie che andavano per la maggiore ne XIX secolo, teorie in base alle quali un’opera letteraria veniva studiata per scoprire l’individualità nascosta dell’autore.
Circa venticinque anni fa l’autrice de L’amica geniale ha abbracciato la via di Michel Foucault. Se ora deciderà di proseguire e “tirar dritto” per quella stessa via o se preferirà provare con una “via di mezzo” è forse impossibile da prevedere. Con ogni probabilità sarà il prossimo futuro a darci una risposta.
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